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Pray, love, heal

Migliaia di anni fa, i saggi indiani hanno osservato che il nostro destino è determinato dalle nostre intenzioni e dai nostri desideri. Nelle Upanishad, il classico testo dei Veda, si legge: «Tu sei ciò che è il tuo desiderio più profondo. Come è il tuo desiderio, così è la tua intenzione. Come è la tua intenzione, così è la tua volontà. Come è la tua volontà, così è la tua azione. Come è la tua azione, così è il tuo destino». L’intenzione di guarire, di stare bene, di vivere nell’amore sono semi che vanno fatti germogliare nello spazio della preghiera e della meditazione. Vanno “seminati” non perché mancano nella nostra vita, ma perché sono un diritto naturale di ogni essere umano e fanno parte dell’economia naturale dell’universo.  Lo spazio creato dal silenzio interiore, favorito dalla preghiera o dalla meditazione, crea una connessione profonda con il nostro centro spirituale, il cuore.
La preghiera viene solitamente intesa come una richiesta rivolta a qualche ente spirituale o all’intelligenza della vita. Infatti ritroviamo nell’origine latina della parola - praecari da prex - quella precarietà di cui la parola “preghiera” custodisce il ricordo nella sua stessa etimologia e la cui radice è connessa all’angoscia di fronte alla morte, all’ignoto. Davanti all’ignoto, ecco allora l’invocazione dell’uomo che leva gli occhi al cielo e sente il bisogno di “rimettere” quel peso nelle mani di un’entità che lo trascenda. A prescindere dai vari significati attribuiti alla preghiera, possiamo immaginarla come un affidarsi ad una saggezza superiore, ma che potrebbe esistere anche all’interno di noi stessi.  

Quando tutte le altre strade sono state percorse, la preghiera apre la porta a energie sconosciute; ci mette in connessione con qualcosa di più vasto; essa amplia la nostra coscienza e la porta su frequenze più lente.  Anche la meditazione sortisce questo effetto senza il rivolgersi ad un’entità superiore. La meditazione, come la preghiera, rallenta la mente consentendoci di entrare in uno spazio di silenzio e di pace, dove ogni pensiero ed emozione si annulla in una specie di “vuoto”. L’azione stessa di chiudere gli occhi significa simbolicamente entrare all’interno di se' stessi. E soltanto nel silenzio sarà possibile gettare il seme di una intenzione di guarigione.  Così come accade per i semi, le intenzioni non possono germogliare se le teniamo strette.  Ma  se le rilasciamo nelle profondità silenziose della nostra coscienza, allora esse potranno crescere e prosperare. 
L’intenzione è molto più potente quando nasce dalla fiducia nell’abbondanza del cuore piuttosto che da un senso di mancanza o di necessità. Sono le nostre intenzioni a mettere in movimento l’infinito potere organizzativo dell’universo, e dobbiamo confidare nel fatto che la Vita sa orchestrare la piena realizzazione dei  nostri desideri. È anche opportuno abbandonare i nostri attaccamenti ad un risultato specifico per accettare la saggezza dell’incertezza, cioè permettere ad opportunità e possibilità finora non contemplate di venirci incontro. L’attaccamento è generato dalla paura e dall’insicurezza  mentre il non-attaccamento si basa sulla fede indiscussa nel potere della nostra Anima.  Non lasciamoci travolgere dalla voce che dice che l’unica strada per ottenere qualcosa sia la vigilanza ossessiva.
Se vogliamo che la nostra guarigione accada in una determinata maniera, precludiamo altre risposte, altri aiuti. Molti si attaccano al cibo per guarire, sottoponendosi a diete ferree, dimenticando che non sono fatti di sole molecole chimiche, ma anche di energia, di emozioni, di pensieri, di spirito. La guarigione potrebbe usare altri  canali di quello su cui ci focalizziamo ossessivamente. Per capire quale è la strada migliore, ascoltiamoci e connettiamoci ad una fonte di saggezza e di amore che risiede già dentro di noi e che trascuriamo per seguire altre voci, esterne o interne, del dubbio.
Va creato uno spazio di silenzio e di pura potenzialità dove liberare poi le nostre intenzioni, con la fiducia assoluta che esse ci porteranno le risposte di cui abbiamo bisogno.

Marie Noelle Urech

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